Fra noi c'è sempre stata questa cosa di farci gli auguri anche per le feste dei cristiani. Tu sei molto tollerante e di vedute aperte. Nella tua città natale c'è una grande comunità di copti e tante chiese. Un giorno sono persino riuscito a farti indossare la kippà. Ridevi e chiunque ti avrebbe scambiato per un ebreo. Dicevi che gli ebrei non sono cattivi. Dicevi che Sharon era cattivo. Mi dicevi: anta mush yahoud yahoud... Mi piacevi e mi facevi credere che io ti piacessi. Forse per un po'. Per i primi tempi fu così.
Ci conoscemmo verso al fine del mese di Ramadan del 1420, fra il mese di dicembre 1999 e il gennaio 2000 dell'altro calendario. Ero in moschea per l'iftar e tu avevi cucinato per tutti. Tu eri il nuovo cuoco. Tu eri da poco arrivato in questa grigia città del nord Italia. Tu non parlavi neppure una parola di italiano. Io ricominciavo da poco a studiare l'arabo. Scambiammo qualche parola. No, scambiamo qualche sguardo e tanti sorrisi. Scambiammo numero di cellulare.
Poche settimane più tardi ti invitai a casa da me. Un palazzo borghese, del centro storico, dove gli stranieri non sono ben visti. A distanza di qualche anno mi dicesti che quella prima volta, salendo le scale, provavi paura, eri intimorito. Decisi apposta di non aprire la grata dell'ascensore, le portine di legno cigolanti, l'odore di cera. Doveva essere un'ascesa lenta, accedere al mio mondo. Per ragioni diverse entrambi tremavamo un po' nel salire quelle ampie scale. Non sapevi davvero chi fosse, cosa volesse, questo ragazzo italiano che ti invitava a casa sua, con la scusa di imparare l'arabo. Mezz'ora dopo sul letto ci stringevamo, ci baciavamo.
Così cominciò, così andò avanti per i successivi quattro anni.
La prima grande crisi: quando ti presentasti da me, potevano essere le sette di sera, eri stanco, avevi lavorato tanto come tuo solito, con una piccola sacca, c'erano le tue cose. Ci stavi provando, volevi trasferirti a casa mia in pianta stabile. Non ti bastavano più i fine settimana, o qualche notte a caso. Eri stanco di condividere una camera con altri dieci egiziani. Tu eri diverso da loro. Di un altro ceto. Ti guardai sconvolto. Non sapevi nulla di quello che era accaduto. Mi guardavi sorpreso. Non capivi perché. Accesi la tv. Era l'11 settembre 2001. Il tuo volto si illuminò a vedere quelle immagini. Eri divertito. I due grattacieli in fumo. Ridevi come un matto. Ridevi. Pensavi che io pensassi che tu in qualche modo avessi delle colpe in quanto arabo e che per questo ero arrabbiato con te. Non era esattamente così. Comunque scegliesti proprio la giornata sbagliata per cercare di trasferirti da me.
La nostra relazione andò avanti. Liberamente. Ci usavamo a vicenda? Tu mi piacevi, nulla di più. Fra uomini è così. Non si possono fare sogni, promesse, tipo: "ti amo", "sei tutto per me", "ti voglio sposare", "avremo dei figli" e via dicendo... Fra uomini si è più pratici. Per forza di cose. L'onestà, la lealtà, la franchezza però devono esserci anche fra uomini, in una relazione. Io ero in buona fede, lo sono sempre stato con te e per assurdo lo sono ancora. Dopo tutto quello che è stato.
Mi accorsi che mi eri infedele dal tuo vocabolario. Cominciasti a sfoggiare parole di una indicibile volgarità. Tu non potevi capirlo, non potevi rendertene conto che quei "progressi linguistici" che amavi mettere in mostra non potevano essere che il frutto di rapporti molto intimi con personaggi di infima levatura. Espressioni dialettali a volte. Non dissi nulla, in fondo non eravamo propriamente fidanzati. Tu non mi appartenevi e certo neppure io desideravo appartenere a te. Però mi piacevi ancora e questo tu lo sapevi. E te ne approfittavi.
Mi stancai. Più ti integravi con gli italiani, più perdevi la tua gentilezza, i tuoi modi mediorientali, la tua apparente innocenza. Ti facevi gioco di me. Mi deridevi. Il mio candore, la mia trasparenza ti infastidivano. Mi feci forza. Ti mandai finalmente al diavolo.
Per mesi fui io a non rispondere più alle tue chiamate. E quando bussavi alla porta non aprivo. Sapevo che eri tu. Conoscevo i tuoi orari. Il mio palazzo non ti incuteva più timore. Suonavi al citofono dei miei vicini che ti aprivano. Sapevano che quello del quarto piano aveva un amico straniero, si fidavano delle tue buone maniere e del tuo bell'aspetto. Un aspetto distinto. Un bell'uomo. Un bel sorriso. Era ormai il 2004.
Passò tutto il 2005 e buona parte del 2006. Persi tutte le tue tracce. Non ci fu più alcun tuo segno di vita. Né io ti cercai. Pensavo sempre a te però. Mi avevi stregato. Non ebbi più alcuna relazione nel frattempo. Niente di niente. Pensavo sempre e solo a te. Vagheggiavo di te, del tuo fantasma. Vinsi una borsa di studio per studiare l'arabo, scelsi la tua città. Quattro milioni e più di abitanti. Impossibile incontrarti. E poi tu eri ancora in Italia, pensavo.
Settembre 2006. A poche settimane dalla mia partenza, squilla il telefonino. Eri tu. Dicevi che mi amavi. Che nel 2005 eri tornato a casa. Avevi lasciato l'Italia. Come sempre non ti mentii. Te lo spiegai che di lì a poco mi sarei trovato per tre mesi nella tua città. Per studiare arabo all'università. Mi invitasti a stare da te. Senza esitazioni. Dopo tutto quello che in Italia io avevo fatto per te, eri felice di poter ricambiare con la tua ospitalità. Accettai. Dopo aver posto alcune condizioni.
Rivederti nel tuo paese, nella tua città, pareva un sogno. Me lo avevi promesso, quando ancora le cose andavano bene fra noi, che un giorno mi avresti fatto visitare la tua città. Adesso era arrivato il tuo turno. Eri felice di farmi vedere come vivevi tu. La tua casa. Ti piaceva poter parlare di nuovo l'italiano.
Verso le tre del pomeriggio o giù di lì, dopo un tè alla menta, mi dici che sta per rincasare tuo figlio. Non ti credo. Ti è sempre piaciuto fare questi scherzi. Ancora non avevo aperto la valigia che bussano alla porta. Apri ed è il più dolce dei ragazzini che entra, avrà avuto dodici anni. Ti chiama "baba" e chiede chi sono. E' diffidente all'inizio, un amico del papà, che viene dall'Italia e che parla la sua lingua. All'improvviso un ospite a casa. Poco dopo mi dici che stanno per arrivare Amina e Assna, le tue due altre figlie, la maggiore e la più piccola. No. Hai anche un quarto figlio, nato un anno prima. Poco prima del divorzio. Tornato dall'Italia, tua moglie non ti ha più voluto. Credo avesse capito che ti piacevano gli uomini. Un po' troppo più del dovuto. I primi tre figli però sono rimasti a te, questo è il codice della famiglia nel mondo arabo.
E io? Quattro anni insieme e mi tenesti nascosto questo di te. Che eri un marito e un papà. Avevi persino capito che se avessi saputo che eri "una sposata" ti avrei preso a calci nel sedere prima che tu te ne potessi rendere conto. Le cose però ormai erano fatte. Avevo rinunciato alla camera nel pensionato universitario. La mattina dopo, del secondo giorno, i tuoi figli andati a scuola, abbiamo fatto l'amore, sul tappeto. Quando il muezzin ha cominciato a intonare l'adhan, la chiamata alla preghiera, hai detto che dovevamo interrompere, per rispetto. Io e tuo figlio siamo diventati inseparabili. Ti piaceva vederci insieme. Anche se Amr non è stupido, avendo preso dal papà!
Siamo nel 2010 ormai e hai provato a chiamarmi due volte. Non ti ho risposto io, oggi. Ti chiamerò fra poco. Ormai è sera. Sono passati dieci anni. Siamo amici. A modo nostro. Non sono più venuto a trovarti. E tu mi chiedi di farti la lettera d'invito per tornare in Italia. Io occupo un buon posto, tu lo sai, un visto per te lo potrei far rilasciare in giornata. No.
Hai tradito la mia fiducia, mi hai giudicato, mi hai deriso. E' stato difficile perdonarti. Imperdonabile sarebbe ricascarci. Eppure fra poco alzerò il telefono e proverò a chiamarti, è un po' più tardi dove stai tu per via del fuso orario, mi piace salutarti, parlare con tuo figlio che ora deve essere diventato proprio un bel ragazzo, furbo però, come il papà. Salutare Amina la più piccola e Assna che si era presa una bella cotta per me!
Sono passati dieci anni giusti da quel mese di Ramadan. E ancora l'idea di te mi affascina. Il mistero dei tuoi modi, della tua lingua, della tua terra. Spero che avremo un'altra chance. Spero che avremo un'altra vita.